Abuso d’ufficio via: è lite sul nuovo reato. L’Anm contro Nordio
In Aula il via libera con 170 sì e 77 no. Passa in materia di giustizia l'abrogazione. La discussione sull'approvazione riprenderà martedì 9 luglio
Tra le contestazioni dell’opposizione ma anche dell’Associazione nazionale magistrati, con 170 voti — la maggioranza più Azione e Italia viva — contro 77, la Camera ha ieri approvato in seconda lettura l’articolo 1 della riforma penale voluta dal Guardasigilli Nordio che abolisce il reato di abuso d’ufficio. «Si crea un vuoto legislativo», non «si tutelano i cittadini», si «favorisce la mafia», è «un obbrobrio giuridico» gridano dall’opposizione, lamentando un lassismo nella lotta alla corruzione con l’abolizione di un reato per cui spesso vengono indagati, e anche condannati, gli amministratori pubblici.
Ma a rendere ancora più incandescente il caso è il fatto che due giorni fa, nel decreto svuota-carceri, il Consiglio dei ministri ha di fatto introdotto quello che sembra un nuovo reato che — attaccano — è una riformulazione parziale proprio dell’abolito abuso d’ufficio: il «peculato per distrazione». Per questo le opposizioni avevano chiesto un’interruzione dei lavori dell’Aula e l’intervento del ministro Nordio per chiarimenti, ma non è stato concesso.
Il Guardasigilli in realtà ha spiegato che l’articolo 10 del dl Carceri sul peculato per distrazione non interviene sull’abuso di ufficio, «è una ipotesi completamente diversa. È diverso il bene protetto, qui si parla di distrazione che significa veicolare le risorse che hai a disposizione verso una destinazione che non è quella fisiologica. Quindi non ha niente a che vedere con l’abuso di atti di ufficio che prescindeva dalla distrazione».
Ma molti sono convinti che l’introduzione del reato sia stata espressamente richiesta dal Quirinale: «Chiamiamolo dl Silvan. Nordio fa sparire l’abuso d’ufficio e lo fa riapparire sotto false vesti», attacca il deputato di Avs Devis Dori, solo «per andare incontro ai giusti rilievi di Mattarella». L’Anm accusa: «La cosa che colpisce è che si abroga il reato di abuso d’ufficio e se ne introduce un altro, con decreto legge, che è il vecchio peculato per distrazione. È il segno tangibile che la scelta di abrogare l’abuso di ufficio è una scelta infelice. Si corre ai ripari con un provvedimento normativo d’urgenza per introdurre una pezza per colmare quei vuoti di tutela che saranno creati dall’imminente abrogazione dell’abuso», dice il presidente dell’associazione Giuseppe Santalucia. Che insiste: «È evidente che hanno maturato anche loro una consapevolezza che il sistema non regge.
Non si può abrogare quella norma, ci sono obblighi convenzionale che pensano di poter adempiere con una fattispecie abrogata negli anni 90. Era meglio non toccare nulla». Stesse tesi peraltro sostenute sia dal Pd che dal M5S, mentre Azione chiede che venga soppresso quanto previsto dal decreto. Che effetti si avranno ora? Con l’abolizione del reato di abuso di ufficio, decadono i processi e le condanne in corso, ma possono essere cancellate anche quelle precedenti, bisognerà poi vedere come inciderà il ripristino del peculato. Se l’obiettivo era salvaguardare i sindaci, attacca Anna Rossomando (Pd), «potrebbero essere loro, quali pubblici ufficiali, potenzialmente coinvolti dal nuovo reato», mentre «resterebbero senza tutela i cittadini rispetto agli abusi di potere che non comportano l’uso di denaro».
E Federico Cafiero De Raho (M5S) sottolinea come l’abuso d’ufficio «protegge i sindaci in territori mafia», facendo da scudo per le pressioni illecite. Commenta invece positivamente l’avvocato Michele Sarno, presidente emerito della Camera di Salerno, esperto in diritto penale amministrativo: «Il governo in maniera coerente ha finalmente assunto l’iniziativa della cancellazione di una norma la cui evanescenza è riscontrabile dall’analisi degli esiti processuali», visto che nel 93% dei casi si arriva ad «assoluzioni e archiviazioni». Quello che appunto va evitato è «il pan-penalismo», il fatto che «la genericità di una norma possa aprire spazi pericolosi alla interpretazione determinando le condizioni del venir meno del principio di tassatività».
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